Ci sono viaggi che nascono per scoprire il mondo e finiscono in un luogo dove il mondo si spegne. Nel 1978 due cittadini australiani furono catturati in mare, trasferiti a Phnom Penh e inghiottiti da S-21, la prigione segreta dei Khmer Rossi. I loro nomi oggi restano incisi negli archivi e nelle teche del Tuol Sleng Genocide Museum: Ronald Keith Dean e David Lloyd Scott. Non furono gli unici occidentali: in quei mesi, una piccola scia di barche e di vite venne risucchiata dentro il meccanismo perfetto della paura.
I documenti non raccontano emozioni. Registrano date, nazionalità, numeri su una targhetta. Nella lista dei “foreigners” di S-21 compaiono Dean, Ronald Keith (Australiano) e Scott, David Lloyd (Australiano): due righe in mezzo a una colonna di lingue e provenienze diverse, due vite entrate in una scuola diventata ufficio di sicurezza, poi laboratorio di confessioni forzate. L’Australian War Memorial conserva pannelli e note di sala che ricordano i loro nomi e il destino condiviso con altri occidentali.
Il mare della Cambogia è basso, pieno di isole e di pattuglie. Tra aprile e novembre 1978 più di una barca straniera venne intercettata al largo, spinta da tempeste o da rotte ingenue verso acque proibite. Gli arresti seguivano uno schema: intercettazione, trasporto a terra, trasferimento su camion verso Phnom Penh, ingresso a S-21. Nello stesso periodo finirono a Tuol Sleng anche il neozelandese Kerry Hamill e l’inglese John Dewhirst, compagni del piccolo veliero Foxy Lady; il canadese Stuart Glass fu ucciso al momento della cattura. È il contesto che spiega quanto accadde agli australiani: un corridoio di sequestri marittimi che alimentava la paranoia del regime.
L’ingresso a Tuol Sleng cominciava sempre con una posa. Una fotografia frontale, a volte di profilo. Un numero appuntato al petto. Un dossier che sostituiva il nome. Così entravano anche i due australiani. I registri di S-21, oggi digitalizzati e custoditi negli archivi del museo, dell’US Holocaust Memorial Museum e del Yale Cambodian Genocide Program, mostrano l’ossessione per la carta: schede biografiche, verbali dattiloscritti, confessioni che mescolavano frammenti di biografia e accuse deliranti, come il presunto spionaggio a favore della CIA. Era il modo in cui la burocrazia convertiva persone in prove.
A S-21 la verità non serviva. Serviva produrre verità. Gli interrogatori seguivano protocolli meticolosi: percosse, sospensione, privazione del sonno, minacce ai familiari. Le carte parlano una lingua ripetitiva, sempre uguale, come se fossero state scritte prima dell’arresto. È lo stesso meccanismo che emerge nei processi della ECCC, quando i familiari delle vittime — come Rob Hamill, fratello di Kerry — ricostruiscono la fabbrica della confessione. Dentro quella catena, i nomi di Ronald Keith Dean e David Lloyd Scott non hanno margini: entrano, confessano, spariscono.
Le carte di S-21 rivelano anche il lato surreale della macchina delle torture. Quando i prigionieri non sapevano più che nomi fare, inventavano elenchi improbabili. Kerry Hamill, un occidentale catturato nello stesso periodo, firmò confessioni in cui compaiono personaggi come Colonel Sanders della catena KFC, Mr. Kissinger, Major Ruse e Captain Pepper. Era un gesto disperato, ironico e tragico allo stesso tempo. La burocrazia del regime registrava tutto, senza distinguere tra reale e inventato. L’audioguida del Tuol Sleng Genocide Museum cita queste pagine come esempio della falsità sistematica delle confessioni: non importava la verità, importava solo riempire righe.
Su come morirono gli occidentali di S-21 esistono testimonianze precise e altre controverse. In aula, un ex addetto ha raccontato la cremazione di quattro stranieri fuori dal perimetro della prigione; in un’udienza precedente si parlò di un occidentale bruciato vivo, forse australiano. Sono deposizioni che danno la misura della ferocia e del buio che avvolge le ultime ore, ma che gli storici maneggiano con cautela. Nella maggior parte dei casi, la fine arrivava con un colpo alla testa e il trasferimento a Choeung Ek, i Killing Fields. Per Dean e Scott non esiste un verbale di esecuzione definitivo: esistono le loro carte e il vuoto che lasciano.
L’US Holocaust Memorial Museum indica tra 14.000 e 17.000 i prigionieri passati per S-21, con una dozzina di sopravvissuti. Tra quei numeri, i nomi di Ronald Keith Dean e David Lloyd Scott restano una ferita concreta. Raccontarli significa togliere la polvere alle carte e rimettere la voce nei documenti. Significa impedire che il silenzio chiuda la porta una seconda volta.
Questa non è la storia di tutti i prigionieri di S-21. È la storia di due cittadini australiani che il mare ha portato verso una prigione segreta e che la burocrazia del terrore ha cancellato. È anche la storia di confessioni inventate, di nomi assurdi scritti sotto tortura, di verità che non interessavano a nessuno.
Fonti principali
– DC-Cam (Documentation Center of Cambodia) — Foreigners killed at S-21 (inclusi Ronald Keith Dean e David Lloyd Scott).
– Australian War Memorial — Note e pannelli dedicati alle vittime australiane dei Khmer Rossi.
– US Holocaust Memorial Museum — Scheda su Tuol Sleng (S-21), numeri di prigionieri e struttura della prigione.
– Yale Cambodian Genocide Program — Database di immagini e registri di S-21.
– The Independent — Cambodia’s Killing Fields: the foreigners caught in Pol Pot’s terror (sulle confessioni assurde, inclusi “Colonel Sanders” e altri).
– ABC News Australia — Resoconti del processo ECCC, con testimonianze su stranieri inceneriti.
– VOA News — Deposizione su quattro occidentali cremati fuori da S-21.
– Canberra Times & 9News Australia — Memoria delle vittime australiane e legami con la politica estera australiana.