Tra le risaie Eah ripercorre la fuga e il ritorno. Oggi coltiva terra e consapevolezza: la sua storia non cerca l’oblio, ma un domani diverso per chi ascolta.
"Anch’io sono stato un Khmer Rosso"
(Eah)
Intervista disponibile prossimamene
Dove la guerra si è spenta, Dr. Kheang accende scuola e dialogo. Trasforma i luoghi del trauma in geografie di riconciliazione.
"La memoria deve diventare educazione"
(Dr. Kheang)
Su una strada laterale di Phnom Penh, un venditore spinge un carretto blu con una cassetta gialla e noci di cocco. Tra motorini e cavi sospesi, il suo sguardo incontra l’obiettivo: lavoro e città avanzano alla stessa andatura. È il respiro quotidiano della capitale, concreto e ostinato.
Con passo calmo e parola attenta, la guida ci conduce nei luoghi segnati dal passato. Dove la memoria diventa dialogo, apre varchi di ascolto.
Paesaggi, mercati, silenzi e memorie: uno sguardo autentico sulla Cambogia, tra vita quotidiana e tracce di un passato che resiste.
Di spalle, una t-shirt bianca a lettere gialle davanti a un muro turchese consumato. Su un tavolo di metallo, mani giovani maneggiano un pesce, tra ruggine e rubinetti stanchi. Un gesto semplice, che racconta il lavoro quando nessuno guarda.
Nel cuore della sua casa ad Along Veng, Ta Mok dipinse un murale di Angkor Wat. Non un semplice ornamento, ma un gesto di appropriazione simbolica: il tempio più sacro del Paese trasformato in emblema personale, a legittimare il potere dei Khmer Rossi con l’immagine della nazione intera. Un paradosso che rivela la distanza tra la grandezza evocata e la violenza quotidiana.
Un’abitazione che fu rifugio e prigione, indebolita dal tempo, ma ancora carica di presenza. Il silenzio parla più delle parole.
Scavato sotto terra, un rifugio che custodisce angosce, segreti e paure. Passi lievi su corridoi oscuri, dove il potere ha tremato.
Un motorino si ferma davanti a un piccolo chiosco di strada, tra ombrelli sbiaditi e pentole fumanti. Lo scambio è rapido, silenzioso, quasi invisibile nel caos della città. Phnom Penh scorre, ma qui il tempo sembra rallentare per un istante.
Ai margini della città, una moto con rimorchio riposa tra l’erba alta, tetto di lamiera e amache vuote. Davanti a uno specchio d’acqua, il tempo rallenta sulla sabbia chiara. Un rifugio improvvisato: ombra e respiro, prima di tornare sulla strada.
Tra cavi aggrovigliati e tettoie di lamiera, una bandiera cambogiana sporge dalla facciata. Rosso e blu tagliano il grigio dei contatori e le righe dei teli. Un segno di appartenenza appeso all’ordinario.
Un tuk-tuk giallo accosta al marciapiede; dentro, il conducente allunga i piedi e si concede un respiro. Insegne in khmer e una bandiera sfilano sullo sfondo. Un istante di quiete nel traffico che non dorme.
Tra lamiere arrugginite e silenzio, sopravvive il veicolo che fu la stazione radio mobile di Pol Pot. Da qui partivano ordini e propaganda, parole che tenevano in vita il regime. Oggi resta solo un relitto, memoria fragile di un potere che parlava al Paese dall’ombra della giungla.
Davanti alla tomba di Pol Pot si trova una semplice cassetta metallica, usata da alcuni visitatori per lasciare offerte. Il gesto è controverso: per alcuni riflette tradizioni buddhiste legate al merito (punya), per altri risponde alla necessità di tenere calmo lo spirito del dittatore, temuto anche dopo la morte. Un atto che non esprime venerazione, ma piuttosto la volontà di proteggersi da un passato che ancora inquieta
Questa casa in legno, ad Along Veng, fu sede delle riunioni più importanti dei dirigenti Khmer Rossi dopo la caduta del regime. Oggi è stata trasformata nell’Along Veng Peace Center, un luogo di memoria dove scolaresche e visitatori della regione vengono per conoscere la storia recente della Cambogia.
Un momento della visita ad Along Veng. La guida del Peace Center ci accompagna tra i luoghi legati all’ultimo rifugio dei Khmer Rossi, immersi nella quiete della giungla.
Nel cuore del Palazzo Reale, la bandiera cambogiana e un vessillo blu sventolano davanti a fregi dorati. Rosso e blu tagliano l’oro delle decorazioni, tra drappeggi bianchi e ocra. Orgoglio e cerimonia, nel respiro della capitale.
Uno scooter impolverato sosta sulla terra battuta; dal manubrio pendono due caschi, uno nero e uno giallo decorato. La targa azzurra spicca tra foglie secche e verde fitto. Un respiro breve, al margine del sentiero.
Una capanna di legno con tetto di paglia ripara un motociclo e un’ombra seduta. Davanti, terra chiara e ciuffi d’erba; in fondo, lo skyline pallido della capitale. Qui la città rallenta e la campagna resiste.
Nel cortile del Palazzo Reale, cuspidi dorate si stagliano contro un cielo chiaro. Tetti rossi e fregi lavorati incorniciano due guardiani di pietra. Una calma luminosa, sospesa tra rito e quotidiano.
Incise più di otto secoli fa, queste iscrizioni raccontano storie di re, divinità e popoli che hanno abitato l’Impero Khmer. Ogni segno è una traccia di memoria, un frammento di spiritualità e potere. Angkor Wat non parla solo attraverso i suoi templi monumentali, ma attraverso queste parole scolpite, sopravvissute al tempo, che continuano a custodire segreti e tradizioni di un passato lontano.
Scolpito nella pietra secoli fa, questo volto rappresenta un re divinizzato o una figura sacra dell’antico Impero Khmer. I dettagli dell’ornamento e la serenità dell’espressione testimoniano il legame profondo tra potere, religione e immortalità. Ogni intaglio è un frammento di memoria, un racconto silenzioso che collega il presente all’epoca d’oro di Angkor.
Il ritratto ufficiale della Regina Madre Norodom Monineath Sihanouk campeggia sulla facciata decorata del Palazzo Reale di Phnom Penh, tra dettagli dorati e motivi tradizionali khmer.
Figura profondamente rispettata in Cambogia, la Regina Madre incarna il legame tra monarchia, tradizione e identità nazionale. L’immagine, incorniciata da elementi ornamentali preziosi, riflette la devozione del popolo cambogiano e la continuità della dinastia reale
L’ex scuola Tuol Sleng, trasformata in prigione di sicurezza S-21 durante il regime dei Khmer Rossi, è oggi uno dei simboli più drammatici della Cambogia contemporanea.
Dietro queste grate e fili spinati, migliaia di persone furono imprigionate, interrogate e torturate tra il 1975 e il 1979. Il silenzio che avvolge l’edificio racconta più di quanto le parole possano esprimere: un luogo di memoria e di dolore collettivo, che continua a testimoniare gli orrori del genocidio cambogiano.
Dall’interno dell’ex prigione S-21, lo sguardo incontra le palme che ondeggiano libere all’esterno. Un filo spinato separa due mondi: quello della vita che continua e quello della memoria, che trattiene le voci di migliaia di prigionieri del regime dei Khmer Rossi.
Tracce di numeri sbiaditi sulle pareti del S-21, l’ex prigione dei Khmer Rossi. Ogni segno racconta una storia invisibile, una vita segnata dalla brutalità del regime. La parete conserva il peso della memoria, diventando testimone silenziosa del dolore.
Una scritta in khmer incisa sul legno della cella nel centro di detenzione S-21. Il significato preciso è incerto, ma il suo silenzio parla più delle parole: testimonia un frammento di vita rimasto intrappolato tra le mura del dolore.
All’interno dell’ex prigione S-21, le piccole celle raccontano senza parole il peso della memoria. Le porte in legno, consumate dal tempo, custodiscono le tracce di vite spezzate, mentre il silenzio che oggi avvolge questi spazi contrasta con l’eco delle sofferenze passate