Nuon Chea, conosciuto come “Fratello numero 2”, fu l’ideologo dei Khmer Rossi e il braccio destro di Pol Pot. Dalla formazione politica in Thailandia al ruolo nel genocidio cambogiano, fino al processo e alla condanna all’ergastolo: la sua storia mostra come l’ideologia estrema possa trasformarsi in strumento di distruzione collettiva.
Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot, trasformò la Cambogia in un laboratorio politico radicale che tra il 1975 e il 1979 causò quasi 2 milioni di morti. La sua ideologia estrema e il regime dei Khmer Rossi lo hanno reso uno dei dittatori più sanguinari del Novecento.
La liberazione di Phnom Penh del 1979 segnò la caduta del regime dei Khmer Rossi e la fine di un incubo durato quasi quattro anni. L’ingresso dei vietnamiti nella capitale pose termine al genocidio, ma aprì anche un nuovo capitolo complesso, fatto di speranze di rinascita e di nuove dipendenze politiche. Un momento storico che continua a dividere le interpretazioni, ma che resta decisivo per comprendere la Cambogia di oggi.
I Killing Fields custodiscono le tracce più dolorose del genocidio cambogiano. Qui vennero uccise e sepolte migliaia di vittime dei Khmer Rossi, in fosse comuni che ancora oggi parlano attraverso i resti e i silenzi. Visitare questo luogo significa confrontarsi con la crudeltà della storia, ma anche con l’urgenza di mantenere viva la memoria per le generazioni future.
La storia di Kerry Hamill e Michael Deeds, catturati dai Khmer Rossi e uccisi a S-21. Le confessioni estorte, i nomi inventati e il ricordo di due giovani vite spezzate mostrano l’assurdità del terrore e la fragilità di chi ne fu vittima.
Dentro S-21, la scuola trasformata in carcere segreto dai Khmer Rossi. Celle minuscole, torture e confessioni forzate: un viaggio nel cuore oscuro del genocidio cambogiano e nella memoria che oggi resiste tra quelle mura.
Il 17 aprile 1975 Phnom Penh si sveglia in un silenzio innaturale. Nel giro di poche ore, i Khmer Rossi entrano in città e ordinano l’evacuazione totale. Ospedali svuotati, famiglie divise, colonne interminabili di sfollati in marcia sotto il sole: quella che viene presentata come una misura “temporanea” segna in realtà l’inizio di un esodo senza ritorno e di uno dei capitoli più complessi e drammatici della storia cambogiana.
Negli anni ’60 Phnom Penh era conosciuta come la “perla dell’Asia”: una capitale vibrante, cosmopolita e creativa, dove musica, cinema e modernità convivevano con tradizioni millenarie. Tra luci, mercati e architetture iconiche, la città sembrava invincibile. Ma il 17 aprile 1975, con l’arrivo dei Khmer Rossi, quel mondo scomparve per sempre. In questo articolo raccontiamo la Phnom Penh che non c’è più, attraverso storie, immagini e frammenti di memoria.