Per capire l’alba del 17 aprile 1975 bisogna ascoltare il boato che la precede: anni di bombardamenti sulle campagne cambogiane, lungo il confine con il Vietnam. Tra il 1965 e il 1973 gli Stati Uniti scaricano sul Paese un’enorme quantità di ordigni, nell’ordine dei milioni di tonnellate, con un’escalation che culmina nelle operazioni Menu e Freedom Deal.
Non è un episodio isolato: è un ritmo che dura anni, che spacca le risaie, disperde le famiglie, frantuma la vita rurale. A Phnom Penh arrivano colonne di sfollati: contadini senza terra, bambini senza scuola, anziani senza più villaggi a cui tornare. La capitale, nata per una popolazione molto più piccola, si gonfia oltre ogni misura, fino a toccare due milioni di persone alla vigilia della caduta. È una città stremata, che respira a fatica.
Gli ultimi mesi sono un’attesa tesa, una sospensione del tempo. Il governo di Lon Nol controlla ancora Phnom Penh, ma è una roccaforte circondata. Le strade di rifornimento sono precarie, l’aeroporto di Pochentong diventa un’arteria vitale per l’arrivo di viveri e aiuti. Intorno, i Khmer Rossi guadagnano posizioni nelle campagne.
In città, la guerra è già entrata: nelle code per il riso, nelle radio piene di voci spezzate, nei cimiteri improvvisati alla periferia. È chiaro a molti che non si tratta più di “se”, ma di “quando”.
Cinque giorni prima della caduta, il cielo di Phnom Penh ruggisce in modo diverso. Non sono bombardieri, sono CH-53 dei Marines che atterrano per evacuare diplomatici, personale dell’ambasciata, giornalisti e collaboratori locali.
L’operazione si chiama Eagle Pull. Nel giro di poche ore, 276 persone vengono portate via per elicottero, trasferite su navi della Marina nel Golfo di Thailandia. È l’ultima immagine “americana” della capitale: un ponte d’aria che si chiude, mentre a terra restano milioni di cambogiani.
Nelle foto rimane la polvere sollevata dai rotori, nei racconti il senso di un congedo definitivo.
All’alba del 17 aprile, Phnom Penh si desta in un silenzio innaturale. Le radio smettono di parlare, i mercati non alzano le saracinesche; poi corre la notizia: i Khmer Rossi sono entrati in città.
Per pochi minuti c’è persino chi festeggia, immaginando che la guerra sia finalmente finita. Ma l’illusione dura pochissimo. Nel giro di ore si capisce il vero piano: trasformare il Paese in una società agricola totale, eliminando la vita urbana.
Spunta un ordine che risuona ovunque: tutti fuori. Non domani, non tra qualche giorno. Subito.
L’evacuazione comincia come una marea e si trasforma in esodo. Dalle case, dagli ospedali, dalle scuole, dalle pagode: tutti devono muoversi.
I reparti ospedalieri si svuotano con una crudeltà amministrativa. I pazienti vengono portati via su barelle improvvisate, flebo ancora attaccate, infermieri costretti a spingere lettighe in mezzo a una folla che si fa fiume.
Le strade diventano corridoi di polvere. Un milione di corpi spinti fuori dalla capitale in pochi giorni, sotto un sole che non dà tregua. Le famiglie si perdono, i bambini seguono i genitori a fatica, gli anziani e i malati rimangono indietro.
Phnom Penh, città affollatissima fino al giorno prima, in settantadue ore si fa città fantasma. Non è un trasferimento temporaneo, come annunciano gli altoparlanti: è la premessa di un progetto ideologico che vuole azzerare la modernità.
Nelle storie che abbiamo raccolto, l’evacuazione non è mai solo una cronaca: è un’immagine che ritorna la notte.
Il Dr. Ly Sok-Kheang, oggi direttore dell’Anlong Veng Peace Center, ci racconta di come i suoi genitori furono evacuati da Phnom Penh verso la provincia di Battambang e di una sorella perduta in quegli anni.
La sua riflessione, semplice e ferma, tira il filo che unisce la marcia di allora al lavoro che fa oggi: documentare ogni storia prima che si perda. È una memoria che non cerca il sensazionalismo, chiede solo di essere ascoltata, perché i testimoni “muoiono uno a uno” e con loro rischiano di svanire i dettagli, i nomi, i volti.
A guardarla da lontano, l’evacuazione di Phnom Penh è un gigantesco spostamento di popolazione imposto con le armi. A guardarla da vicino, è un atto simbolico: spegnere una capitale significa cancellare i centri della vita comune, gli ospedali, le scuole, i mercati, i templi, e sostituirli con un’idea di purezza agraria.
In questo gesto si legge l’orizzonte di chi è entrato in città: nessuna tregua, nessuna coesistenza, solo una tabula rasa. Nei documenti e nelle testimonianze di quei giorni c’è anche la percezione di un inganno: la parola “temporaneo” come una chiave che apre una porta e poi la chiude dall’esterno.
Quando la città si svuota, non rientra più nessuno.
Chi è sopravvissuto ricorda la polvere. Le labbra spaccate, le voci issate sopra la fatica, il fischio secco delle armi quando qualcuno rallenta. Ricorda l’odore di riso crudo nei sacchi, le foto lasciate sui tavoli, un cane che non smette di abbaiare davanti a un portone.
Ricorda soprattutto il rumore delle città quando diventano campagne: il silenzio dopo che la folla è passata.
Oggi, quando il Comitato per la Memoria e i centri di ricerca ricostruiscono quelle ore, tornano due immagini: il fiume umano che scorre verso le risaie e la capitale che diventa un corpo vuoto. Quelle immagini spiegano, meglio di mille definizioni, che cosa significa “evacuazione totale”.
Qui ci fermiamo. Questa non è la storia del regime, né dell’Angkar, né dei campi di lavoro. Questo è il racconto dell’evacuazione di Phnom Penh e dei giorni che l’hanno resa possibile.
Nei prossimi giorni pubblicheremo nuovi approfondimenti dedicati al regime dei Khmer Rossi, alla struttura dell’Angkar e alla vita nei campi di lavoro, per comprendere a fondo ciò che accadde dopo questi eventi.
Per scoprire di più sulla memoria del genocidio e sulle sfide della Cambogia di oggi, ti invitiamo a leggere l’intervista integrale al Dr. Ly Sok-Kheang.
Kiernan, Ben & Owen, Taylor: Bombs Over Cambodia — Yale Genocide Studies Program
United States Holocaust Memorial Museum — Cambodia Genocide Program
Documentation Center of Cambodia (DC-CAM)
U.S. Department of Defense — Operation Eagle Pull
Tiziano Terzani — Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia
Fonti immagini:
Christoph Froehder / Associated Press, VOA Cambodia — Licenza CC BY 4.0
U.S. Marine Corps — Pubblico Dominio