Il 7 gennaio 1979 segna una data spartiacque nella storia della Cambogia. Quel giorno, le truppe vietnamite entrarono a Phnom Penh ponendo fine al regime dei Khmer Rossi di Pol Pot, responsabile di uno dei genocidi più feroci del XX secolo. Dopo tre anni e otto mesi di terrore, il Paese usciva dall’incubo, ma non era ancora pronto a respirare davvero libertà e pace.
Il regime dei Khmer Rossi aveva isolato la Cambogia dal mondo, svuotato le città e trasformato il Paese in un gigantesco campo di lavoro. Carestie, esecuzioni di massa e lavori forzati avevano provocato la morte di circa due milioni di persone. Nel frattempo, i rapporti con il Vietnam erano degenerati: conflitti di confine e tensioni ideologiche portarono alla guerra aperta.
Nel dicembre 1978 l’esercito vietnamita lanciò una massiccia offensiva contro la Kampuchea Democratica. Ben presto i Khmer Rossi, logorati da faide interne e privi di sostegno popolare, si trovarono incapaci di resistere. Le truppe di Hanoi avanzarono rapidamente lungo le principali direttrici, conquistando le città provinciali e puntando dritte verso Phnom Penh.
Il 7 gennaio 1979, i soldati vietnamiti entrarono nella capitale quasi senza incontrare resistenza. I leader dei Khmer Rossi – Pol Pot, Ieng Sary e Khieu Samphan – avevano già abbandonato la città per rifugiarsi nella giungla. Phnom Penh appariva deserta, segnata dalla fame e dalla paura, ma la popolazione accolse i vietnamiti come liberatori.
Con la caduta dei Khmer Rossi venne istituito un nuovo governo, guidato dal Fronte Unito per la Salvezza Nazionale della Kampuchea, sostenuto dai vietnamiti. Heng Samrin divenne capo dello Stato e un giovane ex khmer rosso, Hun Sen, ministro degli Esteri. Nacque così la Repubblica Popolare di Kampuchea, un regime socialista strettamente legato ad Hanoi e all’Unione Sovietica.
Il nuovo governo utilizzò intensamente la propaganda per legittimarsi. Manifesti e giornali mostravano contadini sorridenti e campi produttivi, simboli di una Cambogia che si voleva ricostruire dalle macerie. Ma dietro le immagini ottimistiche, la popolazione affrontava ancora fame, malattie e profonde ferite sociali.
La caduta dei Khmer Rossi non significò la fine della sofferenza. Molti cambogiani, ridotti alla fame, si riversarono ai confini in cerca di aiuto. I campi profughi in Thailandia si riempirono rapidamente, mentre nel Paese il nuovo governo faticava a ristabilire servizi essenziali. Intanto, i Khmer Rossi si riorganizzavano nella giungla, sostenuti dalla Cina e pronti a lanciare una lunga guerriglia.
La liberazione di Phnom Penh è ancora oggi ricordata in Cambogia. Ogni 7 gennaio si celebra il “Victory over Genocide Day”. Monumenti e simboli come l’Independence Monument o la sua raffigurazione sulle banconote ricordano quel momento storico. Ma la memoria resta ambivalente: per alcuni fu vera liberazione, per altri l’inizio di una nuova dipendenza dal Vietnam.
La liberazione di Phnom Penh pose fine a uno dei capitoli più bui della storia cambogiana, ma aprì un’epoca di nuove complessità geopolitiche. La Cambogia dovette confrontarsi con il peso del genocidio, con l’influenza vietnamita e con le difficoltà di ricostruzione. Raccontare oggi quei giorni significa ridare voce a un popolo che, nonostante le ferite, ha continuato a lottare per la propria dignità e memoria.
Per la stesura di questo articolo abbiamo consultato fonti accademiche, giornalistiche e testimonianze dirette, tra cui:
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• Intervista a Dr. Ly Sok-kheang, direttore Along Veng Peace Center, raccolta per Occhi sul Mondo.
intervista Dr. Ly Sok-kheang
• Documenti e materiali del Tuol Sleng Genocide Museum di Phnom Penh
• Documenti pubblici delle Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia
• Testimonianze e materiali del Documentation Center of Cambodia
Vietnamese soldiers entering Phnom Penh (1979)
Photo by Sebbers10, via Wikimedia Commons, licensed under CC BY-SA 4.0.
Manifesto del 1979 (foto originale)
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